giovedì 9 dicembre 2010

Blues: due caffè e in mezzo l’oceano






Brutto tempo, quella mattina. Una di quelle che, appena sveglia, mi mettono voglia di tornare sotto le coperte a sognare un sole traditore che ha scelto altri lidi. La pioggia, da una settimana, continuava a scendere ostinatamente, indifferente verso tutti quelli che, come me, usano il bus per gli spostamenti quotidiani. Borsa, ombrello, zaino: un vero disastro salirci, mentre dietro di te spingono e brontolano gli altri in attesa.
L’inverno appena iniziato sembrava avere tutta l’intenzione di mostrare da subito la sua crudeltà. In certi giorni la pioggia gelata sferzava i volti, ancora assonnati, come una frusta, a ritmo crudele. L’acqua che riuscivo a evitare da ferma sotto l’ombrello la prendevo tutta col piede sul primo scalino, quando dovevo per forza chiuderlo e issarmi con la mano libera sul bus già stracolmo di pendolari.
Ancor più fastidiose per me erano le mattine nebbiose. La sensazione di avanzare come ciechi, a tentoni in quella densa nuvola biancastra, mi faceva venire la nausea. Riconoscevo i luoghi soltanto per qualche luce fioca e passeggera, come i fanali delle automobili o quelle alte e fisse dei lampioni tenuti accesi dal sistema automatico di illuminazione.
Arrivare al lavoro quando piove è davvero un’impresa. Ecco, giusto, impresa. Risi fra me e me, in quella mattina d’inverno, guardando il mio respiro condensarsi in vapore. Alcune parole in questa nuova lingua, che comincia piano piano a svelare i suoi segreti, mi fanno ridere. Io lavoro in una impresa di pulizie e rassetto un ufficio, antes de que empieza a llegar alguien, prima che cominci ad arrivare qualcuno degli impiegati. Prima di qui ho lavorato in un calzificio, poi in un ristorante, poi in un canile. Eh, ricordare tutti i posti dove sono stata! Anche questa un’impresa.
L’ufficio è buio. Le sue finestre danno sul cortile interno di un palazzone alla periferia di questa città. Un palazzo così alto che spezza la linea del cielo e proietta la sua lunga ombra sugli altri edifici intorno mentre il sole, quando c’è, fa il suo giro. Bisogna sempre tenere la luce accesa, anche di giorno. Tutto è grigio, anzi di un bigio giallastro per via dei neon. Anche la faccia del signor Geraldi Mario ha questo colore. Lui arriva sempre per primo. Strano, mi ero immaginata che il capo potesse arrivare quando ne aveva voglia. Invece, io esco e lui entra. Non mi ha mai degnato di uno sguardo, ma io un occhio l’ho gettato su quella figura che vedevo arrivare dietro la grande porta a vetri cinque mattine a settimana. Ma quanti anni avrà avuto? Trenta? Quaranta? Non capisco ancora bene l’età della gente di qui. Io ne ho sessanta.
Sulla porta, prima d’entrare, mi sfilai gli stivaletti impermeabili, un regalo della signora Montasi Giulia a cui di giorno tenevo i bambini. Dalle nove alle quattro. Così riuscivo a fare almeno dieci ore di lavoro, quando la mia impresa mi faceva lavorare. Mi sentivo ricca con le dieci ore. No, ricca no, ma fortunata.


‒ Se non ti offendi… Miriam.
‒ No, non mi offendo, signora. Grazie.
La signora si è toccata il filo di perle che indossa sempre, anche in casa. Il golfino lilla ne disegna il busto sottile. Anche le sue mani sono sottili, anzi affusolate, bianche e lisce. Sul dito anulare brilla una fede d’oro, discreta, tempestata di brillantini.
‒ Sono soltanto zirconi ‒ mi ha detto un giorno che io gliel’ho ammirata.
Le sue dita, mentre parlava, si sono posate sui coralli di madreperla, scorrendoli uno ad uno. Un gesto che fa quando è imbarazzata. Ormai l’avevo capito.
‒ Grazie signora ‒ ho ripetuto prendendoli. E le ho sorriso.
Brutto tempo, quella mattina.
L’impresa di pulizie, Cooperativa Solidale, non mi pagava abbastanza e spesso sospendeva il lavoro anche per una settimana di seguito. Lavoravamo a turno io e altre cinque ragazze. Loro erano molto giovani. Non si trascinavano come me. Facevano svelte svelte. Non avevano l’affanno. Ma io tiravo su le spalle quando il titolare ci chiamava nel suo ufficio per la paga, e cercavo di nascondere il mal di schiena che mi tiene sempre compagnia, spezzandomi in due. Mi accontentavo. Anche la signora Montasi mi aveva preso perché io mi accontento: non chiedo contributi, non reclamo ferie o gratifiche natalizie.
È davvero un’impresa trovare e poi mantenere un qualsiasi lavoro per una come me, in questo paese.
Gli stivaletti erano appena screpolati in punta, ma ancora oggi mi tengono i piedi asciutti. Sono di marca. Scarpe italiane. Anche quelle come me hanno cominciato a capire che quando dici scarpe italiane, cammini subito meglio, persino se sono usate.
Fregavo e strusciavo, bagnavo, asciugavo e lucidavo. Quella mattina, dicevo, mentre mi preparavo a rimettere nello sgabuzzino secchio e stracci, ho sentito la porta aprirsi e sono corsa all’ingresso. Si sa mai che entri un estraneo, pensai, combina qualche guaio y después la colpa è mia. Ho sempre paura di sbagliare e finisco col fare sciocchezze. Eppure lo sapevo che nessun altro ha la chiave se non il signor Geraldi Mario, oltre a me naturalmente.
Avevo quasi finito, ed ecco che entra proprio lui, el señor Geraldi, quello che nell’andar via incrociavo sulla porta. Quasi ogni mattina, tranne il sabato. Il capo, qui dentro. Uno che teneva sempre una cara fea y ceñuda, uh, una faccia seria e accigliata. Alla sua età, con quel buon lavoro.
Ogni tanto mi dimentico di estar in un altro paese e mi viene da parlare a modo mio. Succede così cuando me da por extrañar mi país, quando mi prende la nostalgia. Me figura como mi hijo este joven… Mio figlio, quello che ho lasciato al di là del mare. Col mio lavoro l’ho fatto studiare, adesso aspetta un posto da contabile negli uffici della municipalità. Sarebbe davvero una fortuna e forse potrei ritornare al mio paese. Mi país adorado.
E quella mattina la pioggia era fredda, veramente fredda.
Al mio paese, quando piove, puoi continuare a uscire con abiti leggeri. La pioggia accarezza col suo tepore. Qualche volta, è vero, esagera e allora le strade diventano un’unica pozzanghera, ma non fa freddo.
E fu così che quell’uomo, che sembrava mio figlio, proprio quella mattina mi sembrò diverso. Aveva un polso ingessato, ma la sua faccia era distesa, clara. C’era come una… ‒ un attimo che sto cercando la parola, non voglio hacer mal papel, fare una brutta figura ‒ ecco, luminosità! Una luce di gioia sul suo viso. Proprio un’altra persona.
‒ Buenos días, buon giorno!‒ risposi al suo saluto.
Gli presi istintivamente l’ombrello che reggeva con due dita libere dal gesso. Avrei voluto avvertirlo che il pavimento era umido, che sarebbe potuto cadere, visto che aveva una mano sola a tenere tutto. Ma lui appoggiò la cartella di pelle a terra, sotto l’attaccapanni, fece scivolare verso la mano la giacca impermeabile che aveva sul braccio e la lanciò in alto hacia el perchero, l’attaccapanni.
‒ Centrato! ‒ disse con una certa soddisfazione. Poi si sedette come di consueto alla sua scrivania.
‒ Sono in anticipo, signora, ma non si preoccupi di me.
‒ Sì, señor. Ho quasi finito.
Sentii il mio viso diventare colorado, rosso di imbarazzo. Mai mi aveva rivolto la parola. Ogni tanto si guardava il gesso e sorrideva. Lo sfiorava con l’altra mano, indugiando come per una carezza.
‒ Sto andando, señor, Qué tenga un buen día.
Lui si girò verso di me e mi disse a sorpresa:
‒ Aspetti un momento ‒ e, continuando a sorridere, mi fece un gesto che si usa qui: pollice e indice uniti con la mano che oscilla come per dire Vamos a tomar un cafè? Posso offrirle un caffè?



Ed io mi trovai a rispondere un ‒ Sì, qué bueno, gracias! ‒ senza riflettere. Ma il desiderio del caffè ha spinto le parole fuori della mia bocca come una promessa di felicità. Devo ricordarmi di stare al mio posto, potrei rischiare di perdere il lavoro.
Lui è alto, per guardarlo dovetti tenere la testa un po’ all’indietro. Sì, quella mattina era diverso. Davanti alla macchinetta del caffè, nell’angolo dell’ingresso, guardai da vicino il gesso: qualcuno ci aveva scritto sopra. Repressi la mia curiosità sulla scritta, ma non mi trattenni dal chiedergli:
‒Señor qué ha pasado, cosa è successo?
Così, per cortesia e perché bere un caffè stando zitti avrebbe aumentato il mio imbarazzo. E poi, come si fa a stare zitti davanti a uno che ti sembra tuo figlio! Io sono fatta così.
Il caffè era bollente ed era davvero gelida quella mattina. Il pensiero di uscire, rinfilarmi gli stivaletti e affrontare di nuovo la pioggia battente me lo fece proprio gustare quel caffè.
‒ Una sciocchezza, non si preoccupi, ‒ mi ha risposto lui. ‒ Giocavo con mio figlio a pallone e sono caduto come un bambino. Non lo vedevo da due settimane. Sa, lui vive con la madre. Vede, qui c’è la sua firma, Alessandro.
‒ Ah, Alejandro, como mi nieto, il mio nipotino, qué lindo! Che bello!
Non so cosa ci trovai di buono e di bello, e il giovane uomo che avevo davanti forse stava pensando che yo era una estúpida donna delle pulizie. Ma io, con la tazzina del caffè in una mano e nell’altra il mio ombrello sgangherato, mi persi in un sorriso pensando a mio figlio. Tra poco lui avrebbe potuto comprare un pallone vero al suo Alejandro. Avrebbero fatto una bella partita nel campo dietro casa. E vidi la sua faccia, progressivamente più nitida, fino a distinguerne nettamente i contorni e le rughe che si fanno agli angoli dei suoi occhi di ossidiana quando ride.
Qué bueno, señor, gracias! ‒ ripetei trasognata e in grazia, il tempo di un sorso di caffè.

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