domenica 20 febbraio 2011

Giulia, punto e virgola.

Giulia era una bambina. Una bambina dal viso angelico e occhi castani. I suoi lunghissimi capelli biondi, che si inanellavano sulle punte con tenere volute,  le davano all’apparenza un’aria angelica subito contraddetta dai lampi che quegli occhi, né belli né brutti, saettavano quando uno meno se l’aspettava. Una bambina  di quelle che sembrano venute al mondo per fare la gioia di mamma e papà che raccoglievano compiaciuti i complimenti di parenti e amici.
‒ Che bella bambina! Un faccino che sembra fatto di burro.
E non si trattava di complimenti formali, dettati dal galateo mai scritto degli adulti di fronte a un nuovo essere che veniva ad abitare abbastanza casualmente questo pianeta. I complimenti erano sinceri, dettati dall’affetto ma tenuti a bada dallo sguardo carico di prudente sospetto della bambina che squadrava da capo a piedi l’interlocutore come a intimargli di non dire ovvietà. Fin dai primi mesi della sua esistenza.
In realtà Giulia era venuta al mondo con le idee chiare: rovesciarlo da subito con ingenua caparbietà. E fare a suo modo. Sempre.
Fu così che Giulia, un giorno, disse a mamma e papà:
‒ Non voglio più andare all’asilo. Io domani vado a scuola.
E lo fece senza perdersi in spiegazioni e senza abbandonarsi a capricci piagnucolosi, come succede quando i bambini vorrebbero ottenere qualcosa che sanno essere impossibile, e solo lo sfinimento dei malcapitati genitori può realizzare. Lo disse una mattina, al terzo anno di asilo appena iniziato, dopo aver trascorso la notte, quasi tutta la notte a giocare nella sua stanza, mentre mamma e papà cercavano di dormire almeno una decina di minuti. Sì, perché Giulia di notte non dormiva. E non dormì fino agli otto anni. Giorno più, giorno meno.
‒ Come facciamo?
Il papà e la mamma si guardarono smarriti.
A Giulia l’asilo non era mai piaciuto. Per due motivi. Il primo era la mensa. Lei mangiava soltanto un quarto di mela e mezzo panino. Qualche volta, la suora sua maestra riusciva a farle fare, senza dir nulla alla madre superiora, un uovo al tegamino. Il secondo era il fatto che all’asilo non si scriveva e leggeva. Giulia non vedeva l’ora di tornare a casa per aprire il suo “Quaderno del divertimento” dove disegnava e scribacchiava senza che nessun adulto potesse metterci becco.
‒ Oggi ci vai e basta. Domani è sabato e ne parliamo ‒ tagliò corto la mamma.
Giulia fu accolta come uditrice in una prima classe da un giovane maestro in un paesino di provincia. Ogni mattina a turno mamma e papà prima di andare a lavoro in città, l’accompagnavano in quella scuoletta, sperduta nella nebbia della pianura padana.
La pianura non fece in tempo a scrollarsi dalla nebbia che il maestro convocò mamma e papà a scuola.
‒  Signori miei, disse asciutto, così non va bene. Giulia deve fare da sola. Ne farete un mostro se continuate a correggerle i compiti.
I due, che erano in debito verso il maestro per aver accolto in classe quasi illegalmente, bisogna dirlo, la loro bambina, rimasero come allocchi e confessarono di non sapere di cosa stesse parlando. Prima, non avevano tempo di guardare i quaderni della figlia; secondo, se l’avessero fatto, la gatta che si nascondeva dietro il visetto angelico avrebbe cacciato fuori le unghie. Giurarono e spergiurarono di non aver mai aiutato la bambina nello svolgimento dei compiti.
‒ Leggete qui ‒ disse il maestro.
Le teste dei due genitori si accostarono compunti per leggere il quaderno che il maestro stizzito porgeva loro, aperto sull’ultima pagina.
‒ E… cos’è che dovremmo notare? ‒ chiese la mamma che cominciava a infastidirsi. Il papà accompagnava con gli occhi senza fare motto. Era il suo carattere.
‒ Il punto e virgola!
‒ Cos’ha il punto e virgola che non va?
La professoressa di lettere era pronta a mangiarsi quel maestrino di provincia che osava pontificare su un meraviglioso punto e virgola.
‒ Signora, ‒ e il maestro si fece ancor più maestrino ‒ il punto e virgola non fa una piega. Ma è innaturale che Giulia, alla sua età, a scuola da un mese, usi nientemeno che il punto e virgola in questo modo. Spezza il periodo, ma non interrompe la continuità del pensiero; la sua è una pausa espressiva funzionale in un periodo complesso. Vede? Rilegga, rilegga qui. Basta farle i compiti o comunque perfezionarli, vi prego!
La signora guardò il marito. Lui rideva sotto i baffi, compostamente, ma non parlava. Era fatto così. Fu lei allora a proporre di chiamare Giulia e chiederle se sapeva quello che aveva fatto.
Giulia arrivò. Accompagnata dal bidello che aprì la porta e la spinse dentro riluttante.
‒ Vieni qui, Giulia ‒ la voce del maestro era gentile, ma ferma ‒ dicci perché hai usato il punto e virgola.
Giulia prese in mano il quaderno di classe e lesse. Poi levò lo sguardo sul maestro e, dopo aver guardato la mamma che le sorrideva, disse candida:
‒ Mamma, ho provato. Sai, il punto lo avevo già messo, la virgola pure. Ho voluto provare con il punto e virgola.
Si salutarono cortesemente maestro da una parte e mamma e papà dall’altra, mentre il bidello riaccompagnava Giulia in classe.
L’anno dopo, la maestra della seconda convocò i genitori di Giulia.
‒ Signori miei, così non va. La bambina in classe mette la testa sul banco e dorme almeno fino alle nove. Evidentemente voi la mettete a letto troppo tardi oppure Giulia ha dei problemi di concentrazione. È spossata. Fa fatica a seguire. Faccio appello alla vostra responsabilità.
Anzi disse “re-spon-sa-bi-li-tà”, scandendo con saccenteria la parola.
I due si guardarono, mormorarono scuse indistinte. Anche il papà questa volta biascicò qualche parola, e se ne andarono.
La maestra non seppe mai che Giulia di notte aveva altro da fare che dormire.

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