domenica 6 febbraio 2011

I colori di Louise (Omaggio a Louise Bourgeois)

Il giorno l’ha sorpresa ancora all’opera. Quando attraverso la grande finestra a vetri la luce lattiginosa di quella mattina d’inverno ha invaso l’atelier, Louise si è tolta i guanti da lavoro, quelli con cui protegge abitualmente le sue mani ossute. La pelle, resa azzurrognola dalla fitta ragnatela di capillari che l’attraversano, sembra doversi rompere da un momento all’altro. In realtà le mani di Louise  rivelano, agli occhi di chi le guarda e al tatto di chi ha avuto il privilegio di stringerle, una strana e meravigliosa energia. La stretta di Louise trasmette un calore benefico, una scarica di vita.
Ora che la fusione è compiuta, le sue mani possono riposare, dopo la notte di febbrile compimento. Decide di andare in cucina a farsi un caffè, ne ha proprio bisogno. Sente lentamente il caffè scenderle nella gola, caldo, forte, nero. Sente che la spirale in cui si era rattrappita si svolge dolcemente. Il cuore della spirale si dilata, allarga le sue volute, allenta la sua morsa. È dal centro, dal cuore che ricomincia la sua apertura al mondo, la rinuncia al controllo, il ritorno al dono. Al di là dei vetri, la pioggia di minuscoli cristalli di ghiaccio picchia sullo strato impalpabile della neve già posata con levità sui rami degli alberi: ne hanno ridisegnato le linee, sfrangiandole come antichi fragili merletti.
Louise non riesce a parlare. Sente che le parole giacciono al fondo del caos, nella sua anima. La sua ultima opera è conclusa. Ritorna verso il lavandino, apre il rubinetto e lascia che il rivolo d’acqua trascini con sé lo zucchero che prima si era versato, perché improvvisamente le sue mani hanno smarrito la fermezza, hanno tremano di ansia e di gioia.
Fuori tutto è bianco. Se lei fosse un pittore ricorrerebbe alla tavolozza per esprimersi. La parola, mediata da segni e prigioniera di convenzioni, le sembra debole, inadatta. Il colore saprebbe dire immediatamente come si sente adesso. Si sente tutta bianca anche lei. Incontaminata. Il bianco è il colore che accompagna la nascita, il colore di tutte le promesse. Si parte da zero. Se dovesse esprimere un desiderio, la tela si riempirebbe invece di azzurri. L’azzurro di un orizzonte sconfinato che accoglie con rispetto ogni soffio di speranza, ogni battito d’ala. Meditazione, pace, fuga. Lei invece scolpisce. Ha bisogno di dare plasticità, forma e solidità alle paure che bussano alla sua mente. Che opprimono il suo cuore. Ha bisogno di materia da plasmare per governare l’ombra di Edipo, della Sfinge, dell’Oracolo.

Ci furono,  un tempo, i giorni del rosa, il colore dell’accettazione di sé, del suo essere donna. Ma il rosa è confinato nella parte più remota della sua anima. Forse dimenticato nel suo scrigno dei ricordi dove a nessuno è dato penetrare. Non sono i ricordi ad andare da lei. È Louise che conserva, custodisce e rovista nel mucchio per trarne forme e materie. Per tenere a bada una nostalgia che provocherebbe lacrime e inazione. Lei è una scultrice: impasta, modella, fonde.
Il trambusto nella stanza a fianco la rassicura, placa la sua ansia e le infonde una gioia segreta. Gli operai specializzati sono al lavoro già da un po’. Potrebbe offrire loro una tazza di quel caffè, caldo, nero forte. “Fate piano!” In realtà non ha parlato. Sulla porta li ha solo guardati con i suoi occhi taglienti, feroci. Tra le rughe del suo viso spudorato, beffardo. E poi se ne’è tornata col suo caffè dietro i vetri della finestra. Può stare tranquilla, loro sanno come fare.
I giornali di ieri ne hanno già dato notizia. Il mondo ottuso aspetta la sua nuova epifania, pronto a criticare, a schernire, a non capire.
Ecco, stamattina si dà compimento ai giorni del rosso, ai giorni del fare. Il groviglio di emozioni di Louise si è materializzato in Maman. La sua creatura è grande, immensa e leggera. È nata.
“Ne avranno paura”, pensa. Ma non se ne cura. Oggi Louise è rossa, incandescente. “Sono pronta allo scontro, alla contraddizione, all’aggressione.”
Louise ha partorito Maman, il grande ragno. Aracne la tessitrice che tesse nell’ombra, negli angoli bui, indisturbata. Cara mamma io ti ho partorito, io ti ho messa a dormire nel bronzo sottile, risonante.
“Fate attenzione!”
 Gli operai fanno scivolare con cautela su binari l’enorme culla di Maman. Dorme Maman, partorita nel bronzo. Louise, uscita sulla porta, sorveglia, tenendo in mano ancora la tazzina del caffè, le delicate operazioni del trasporto della sua creatura, incurante della pioggia gelata che le pizzica il volto e lascia sui capelli effimere farfalle di ghiaccio. Il caffè ha smesso di fumare.
Verranno i giorni del nero. Del lutto, della colpa.
Il cortile della grande casa è immacolato, come le mani purificate di Louise.
“Oggi ho partorito mia madre nell’assoluta freschezza del bianco, il colore delle mille promesse.”
                                                                                   

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