martedì 4 agosto 2015

Sit down old friend, there's something in my heart I must tell you *




Sì, lo so. È la solita solfa: i due giorni prima della partenza vacanziera ti dici che non ce la farai. Non ce la farai a pensare a tutto, sapendo benissimo che mancherà sempre qualcosa. Qualcuno guarda piegare la sua roba con l’aria di sorvegliare il buon andamento dei lavori con sopracciglio critico. Io ho la schiena spaccata, la spalla che mi sussurra ad ogni istante di stare attenta, che quello stiramento lì, proprio quello di allungarmi verso l’altra parte del letto per acchiappare un paio di calzini, non lo posso fare. Mi tengo il dolore a bada, stringo il deltoide sinistro e, strizzando gli occhi e tutti i muscoli facciali (pare che ne abbiamo una ventina circa, a voler trascurare i muscoli dei follicoli che fanno rizzare i peli) aspetto che il tendine faccia silenzio, ritorni nella sua posizione, smetta di urlare nel braccio.
Porcamiseriachemale.
Agogno il momento in cui stringerò il volante tra le mani, quel fantastico momento in cui il culo sarà bel saldo sul sedile, occhiali da guida (una tortura cambiarseli a giro trino, da lontano, da vicino, da sole) sul naso e via. Certo, le valigie sono state sistemate dopo isteriche discussione su se sia meglio infilare i bagagli grandi e solo successivamente i meno ingombranti negli interstizi (io), o accumulare oggetti contundenti e fragili, canne da pesca et similia, (l’altro). Se ti si spaccano gli anelli della canna, ti arrangi. Lasciarlo da solo a caricare senza consulenze inascoltate è stata la mia piccola vendetta. Il deltoide sghignazza: va’ là, chi ha portato giù tutti i bagagli? Chi li ha accumulati vicino vicino allo sportello del bagagliaio di Tamarra per agevolare la fatica? Non rispondo nemmeno (un aiuto c’è stato, da parte della figlia che ha avuto il gomito insaccato e, fresca di terapia ma non ristabilita, si è aggregata alla brigata).


Comunque si parte, imbronciati. La speranza è sempre la stessa, anche lei sorella della solfa: nei chilometri che ci si stendono davanti, nelle miglia marine che ci aspettano gli animi si rassereneranno. Forse. Se oggi seren non è, doman seren sarà, se non sarà seren si rasserenerà.


Affacciata sui flutti dall’alto del deck n.9 della nave, mi lascio ipnotizzare dalla schiuma delle onde prodotte dai motori. Immagino di immergermi, non so nuotare. Quanto potrei resistere? Mi agiterei come una forsennata finché l’acqua non mi avrà risucchiata inesorabilmente o mi abbandonerei alla liquida massa fagocitante? Mi viene in mente subito la scena di Lezioni di piano: affonderei placida (col)legata al mio cellulare, in mancanza di un pianoforte. Qualcuno verrà a salvarmi? Dubito.
Guardo l’orizzonte e respiro a fondo. Con quale animo si parte? Dipende. Con quale animo saranno partiti i disperati dei gommoni? L’immagine dei loro corpi in fondo alle onde, adagiati su letti di anemoni o di posidonie finché qualche abitante delle acque non ne farà scempio, finché il tempo non avrà disfatto completamente le fibre enfiate, è impressa sulle acque. Li vedo. Alcuni con gli occhi aperti nella sorpresa, altri a ciglia serrate nella rassegnazione. Due si tengono per mano. Li vedo con altri occhi che non sono i miei abbacinati dal sole entusiasta, e splendente.
Non vorrei abbandonarmi ai sensi di colpa, ma il pensiero di questo viaggio in superficie nella consapevolezza che le ombre di quell’Ade marino mi guardano non mi abbandona. I nostri sorrisi forzati della partenza si vanno spegnendo nella preghiera per i defunti. Per coloro che mai toccheranno le sacre sponde delle nuove terre. Mi pare di sentire le loro urla, i loro lamenti gorgoglianti nell’ultima boccata d’aria e d’acqua.

Non bisogna guardarsi indietro, avanti sempre avanti. L’adagio suona fasullo, emerge dai flutti e si innalza invisibile fino a mio viso rorido di vapori salati. Salati come lacrime.

Penso di inneggiare alla vita e sono affollata di morti. Non sarò nemmeno in gradi di sublimare i miei incubi in parole rotonde come quelle di Edna O’ Brien (la cui meravigliosa autobiografia mi fa compagnia durante il viaggio) in una trentina di capolavori letterari, né di ricorrere come lei allo psicanalista. Non credo alla psicanalisi. Non smuove di un millimetro ciò che siamo stati capaci di fare o ci accingiamo a fare. Il narciso donato a Virginia Woolf da Freud nella casa di Hampstead non l’ha trattenuta dal riempirsi le tasche di sassi prima di incamminarsi nelle acque dell’Ouse. E non ho neppure tanti soldi come la O’ Brien da sperperare. Però come lei campo tra vivi e morti, che ringrazio tutti anch’io. Sarà il mio scarso talento a tenermi lontana dal coraggio di queste donne? O la mia mediocre adesione alla vita?

Dal Messico arrivano notizie di giovani trucidati nelle loro abitazioni. I mendicanti al Pireo sembrano aumentare a vista d’occhio. Intere famiglie (probabilmente nomadi) dormono sui prati davanti alla metropolitana, le loro donne tutte giovani e gravide. Il mondo mi si offre alla scoperta di dolore e dolore.
Bisogna smettere di far cattivo sangue per le miserie quotidiane, per le beghe di valigie e cazzate varie. Quei piccoli dispiaceri che diventano un grumo di malessere insormontabile. C’è altro a cui badare. Cosa posso fare? C’è una parola splendente in greco: δωρον. I doni, per quanto non ricambiati (e succede anche questo) mi tengono a galla. Minuzie da regalare, briciole di me agli altri. Mi lascio mangiare per vivere io stessa. Io mi salvo così. Per lo meno così è andata fino a oggi. Aprirò il borsellino ogni volta che potrò per mendicanti, ragazzini, vecchie signore e musicanti di strada. Non sono ricca e ho sempre odiato l'elemosima pelosa. Ma cosa posso fare? Ho cantato insieme a una signora dalla pelle riarsa, con chitarra in mano, nel parco del museo sotto l’Acropoli. Abbiamo unito le nostre voci nel classico Volare, allargando le braccia sulle quelle note usate. Una briciola di euforia che ho concesso al mio cuore e spero al suo. Sorrisi scambiati e luce negli occhi. 


Domani camminerò sulla battigia, osservando i miei piedi imprimere docili orme sulla sabbia bagnata. Mi girerò indietro giusto il tempo per vedere la cresta dell’onda cancellarne i segni. L’ultimo a sparire, l’alluce.

Nessun commento:

Posta un commento