giovedì 22 dicembre 2016

Filologia del mostacciolo





Tempo perduto o ritrovato



Via il cioccolato, via il caffè, via tutto ciò che si è attaccato loro addosso col tempo e la modernità. Qui applichiamo la nobile arte del levare. Levare via gli orpelli, le aggiunte frivole, gli addobbi stucchevoli. Recuperiamo la parola MOSTACCIOLO: restituiamo i mostaccioli alla loro primigenia rozza semplicità.
Oggi ce la giochiamo col latino. Con quel latino rimasto vivido e immediato nelle pieghe dei dialetti italiani, più forse in quelli meridionali. Nei nomi dei cibi, prima ancora che nel sapore, affondano le radici del nostro sentire, lì si nasconde il potere evocativo che partorisce le voglie.

Dicevamo il latino: MERUM donde il pugliese MIR’ (da pronunciare appoggiandosi sulla r come se ci fosse una vocale, la e muta dei francesi in personne, per esempio); e i suoi derivati: MUST’, M’STACCIUL’, M’STARD’*. Sono stata chiara? Provate a leggere secondo le indicazioni fonetiche, è divertente.
Mir’ e must’/M’stacciul’ e ‘m’stard!
Merum per i Romani era il vino puro, non mescolato. Quello forte e nero delle uve proveniente dai cipponi dei terreni aridi e porosi.
Mustum era il mosto, spremuta di uva non lasciata fermentare.
Mustacea era la focaccia nuziale impastata di farina e mosto cotto.
Questi i precedenti del mostacciolo, il dolcetto fatto di mosto cotto e farina e poco altro.

Mostaccioli
Ingredienti:
½ l di vin cotto (mosto ridotto dalla bollitura a sciroppo)
½ kg. di farina 0 (potrebbe volercene di più, q.b a un imposto molto morbido ma consistente, non deve scivolare dal cucchiaio)
150 gr. di mandorle tostate (pelate o intere, tritate molto grossolanamente)
Scorza grattugiata di un limone o di arancia.
½ dl di olio d’oliva
Cucchiaino di cannella e/o chiodo di garofano (non lesinate, ché nella cottura gli aromi si dispendono un po’)
Due cucchiaini di lievito in polvere vanigliato (o 10 gr. di ammoniaca per dolci)
Un cucchiaio di zucchero (facoltativo, se assaggiando il vin cotto lo si sentisse troppo acido).

Procedimento:

Intiepidire appena il vin cotto, aggiungere l’olio, le spezie, il limone, il lievito e infine la farina e le mandorle. Amalgamare e lasciar riposare una decina di minuti l’impasto. Poi, con l’aiuto di due cucchiai farne delle quenelle o palline e deporre sulla carta da forno, stesa su una teglia. Non c’è bisogno di ungere la teglia o la carta. Infornare a forno già caldo, 180° per 15’/20’.
I biscotti sono pronti quando i profumi cominciano a farsi sentire. A caldo sono molto molli. Non vi fate ingannare dal colore, ché si fa presto a bruciali. Far raffreddare prima di prelevarli dalla teglia. Spolverare di zucchero a velo mescolato a cannella, se piace. Aspettare qualche giorno prima di mangiarli: ritroveranno la loro giusta consistenza e fragranza. Sono i biscotti degli Inferi, scuri e intriganti come Ade. Cereali e vino sugli altari dei Lari. Si fanno a novembre per la ricorrenza dei morti, ma sono i vivi a gustarli.
Abbinamento: frutta cotta in forno o composta. La composta cos’è? Alla prossima.

*(‘M’stard’, la confettura d’uva nera, passata al setaccio e arricchita di mandorle tritate)

mercoledì 28 settembre 2016

Di cosa parliamo quando parliamo di donne






E parliamo pure di questo nostro quotidiano. Di donne, per esempio, che, quando s’incontrano, si squadrano con occhio censorio, vagolante tra benevolenza e malignità. Signore a modino.

Io non ho mai pensato di essere da guardare, di essere una di quelle donne che fanno girare i galli cedroni per strada. Piccola e nera come il famoso pulcino della pubblicità, mi sono pensata al sicuro. Al riparo non solo da avance maschili, ma anche di invidia femminile. Mi ricordo benissimo che in una delle mie classi quando M. si alzava si sollevava un polverone tra i banchi: eccitati i buoi, schifate le buesse. I compagni e le compagne: i primi per l’eccitazione ormonale, le seconde per l’invidia schietta e feroce che trasudava da tutti i pori. Esperienza che forse molte docenti hanno fatto. Dico le docenti, perché i docenti non credo si siano mai posti il problema, aderendo d’istinto ai buoi.

A me non poteva capitare: passavo, e passo, inosservata. Non è che non sia sensibile alla seduzione, ma per me è sempre stata un fatto più sottile e, se si vuole, più totalizzante; del tipo, se mi vuoi, vieni a cercarmi; vieni a cercare quello che sono io davvero; se mi vuoi, prendimi l’anima. Lontana e aliena da ogni compiacenza. In verità la mia ricerca si concluse alla soglia dell’età adulta e continua ancor oggi in un percorso di conoscenza e amore estenuante, ma allo stesso tempo molto gratificante. Mi ritengo fortunata nell’aver saputo scegliere. Sì, io ho scelto, non mi sono fatta scegliere, per forza di cose.

Epperò la vita riserva delle sorprese. Riassumo il fatto, senza il quale non riuscirei a comunicare la mia sensazione di disagio.

Insieme alla mia amica incontro due ex colleghe a un evento cittadino. Saluti e convenevoli. Ci si siede in due file diverse delle poltroncine del Vanvitelliano, il salone ufficiale della Loggia, sede del Comune di Brescia. Alla fine della manifestazione una delle due, alta, grande e fica, mi viene incontro e mi mette le mani nei capelli, raccogliendoli a coda.

- Sono troppo lunghi, fatti la coda, staresti meglio.

Poi si corregge subito in un “saresti più bella”più educato e gentile.

Io fanfuglio qualcosa, senza dare peso all’alta, bianca (ora) e fica. Ci avviamo separatamente al bar per il rinfresco. In realtà io vorrei esimermi, ma non riesco. La mia amica mi prega di accompagnarla, e giù motivi vari che non interessano a questo discorso.

Sedute per ‘sto aperitivo del c., la signora ripete la manovra. Mi tira i capelli, poi li lascia andare. Sopraggiunge la sua compagna, in petite robe noir (sintetica) e perle di fiume al collo. Con evidenti e annosi problemi di alopecia.

- Sai, - ammicca, lei vuole fare l’alternativa.

La mia ironica e timida risposta si è persa nell’aria; non hanno ascoltato. Avrei voluto mandarle cordialmente affanculo, ma non potevo per la circostanza.

Mi è rimasto addosso un senso di disagio. Sarei dovuta essere contenta. Finalmente nella mia vita due galline si sono scomodate per me. Un tributo alla mia avvenenza senile? Ma quando mai. Poi ho riflettuto: alle ladylike ha fastidio una donna (anziana e loro coetanea) che va in giro con i capelli medusei, non domati dalla mano sapiente di un parrucchiere, spettinata, restia alle movenze dei bigodini, alla messa in piega che mi avrebbe forse trasformato in una signora per bene. In Bignardi mood. Mi hanno messo le mani tra i capelli, vi rendete conto? Come quando la direttrice suora della mia scuola veniva a mettermi la molletta alla frangetta per tenermi in ordine. Come quando mia zia, ero sua ospite, mi fece tagliare le trecce senza dirlo a mia madre che, poveretta, non mi riconobbe quando tornai a casa.

Mi sono sentita come qualcosa da sistemare, da mettere a posto per stare in quel luogo con loro. Come allora. Frugata e violata nel mio modo di essere. Inadeguata.

Cosa diciamo quando parliamo di donne? Non tutte, per fortuna. Ma oggi sono ancora incazzata. - Era solo invidia - mi conforta la mia amica. Invidia di che?
Non credo, c’era qualcosa di più, terribile e crudele, che non riesco ancora a circoscrivere nella categoria dell’invidia.

mercoledì 24 agosto 2016

Tessera dell'insensatezza ovvero dei sassi in un bicchiere




È fondata l’opinione che i veri scrittori e le autentiche scrittrici non scrivano mai sotto l’impulso dell’emozione immediata. Le loro parole sono pesate come oro sul bilancino della significanza distaccata. È una fortuna per me, e un privilegio, che io non possa essere annoverata tra i “cesellatori di gigli”. Il mio “amico”, a sua insaputa, don Pablo Neruda “me lo imparò” una volta per tutte; allieva fui e scolara rimango.

Non scrivo perché altri libri mi imprigionino
né per accaniti apprendisti di giglio,
bensì per semplici abitanti che chiedono
acqua e luna, elementi dell'ordine immutabile,
scuole, pane e vino, chitarre e arnesi.” (da La grande gioia)


Prima ancora dei versi di don Pablo, fui del cerchio di chi vede nelle alate parole altrui la giustificazione delle proprie. E allora lui, il tal Alighieri, mi fa l’occhiolino e di dice di osare con i miei mezzi non certo nell’impresa di rifondare un mondo che mi sovrasta sempre di più, ma nel comunicare quello che il cuore mi detta.

“I’mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’è ditta dentro vo significando.” (D. Alighieri, Purgatorio, vv 52-54).

E nulla più di un terremoto mi smuove a considerazioni forse scontate, ma che urgono e premono per uscire.

Qui, nell’isola di Lesbo, le persone che incontro sono esotiche. Vedi la ragazza georgiana che ho visto scendere una mattina, bianca e alta come una statua in marmo di Paro, in spiaggia. Devo averla guardata a bocca aperta prima di accorgermi del suo sorriso splendente e della chioma bionda con riflessi di rame che si stava attorcigliando intorno alla testa come una corona. Mariam, è il suo nome, viene da Kutaisi. Veste parei fiorati che dovrebbero difendere la sua carnagione eburnea dal sole. Finiamo sedute sui ciottoli a bordo d’acqua e ridiamo: i mei piedi arrivano dove sono i suoi ginocchi! Devo scivolare in giù verso il mare per bagnarmeli, ma a questo punto devo girarmi indietro per parlarle. Non scherzo.

Mariam apre la sua sacca di stoffa e mi mostra le mille creme solari. Nulla da fare: dopo pochi minuti la dea marmorea si è trasformata in un’aragosta gigante. Tremo per lei che tutta solenne si tira qui e là il pareo velato per coprirsi un po’. Troppo alta, troppo lunga. Il pareo è la classica coperta che tira di qua, tira di là, serve davvero a poco. Io, piccola e sufficientemente scura, mi ritiro all’ombra della tamerice, Mariam si addormenta sulla spiaggia, regale come Paolina Borghese.

E poi Billur, una ragazza turca con marito Timur e figlia Turù (o Turùl). Anche questi biondi e gentili. Hanno un hotel a Istanbùl, dopo due minuti di conversazione anglo-franco-greco-italo-turca (nell’ordine) riceviamo un invito in piena regola: ci porteranno in giro per la città e ci faranno vedere tutto quello che c’è da vedere. A sera le mail reciprocamente scambiate fanno parte delle rispettive rubriche postali.

Non so quale seguito avranno questi scambi vacanzieri; in generi io li coltivo. Vuoi mettere andare a Tblisi/Kutaisi o Smirne con guide siffatte? Sì, c’è dell’interesse. Ma quando Turù mi stampa un bacio alla fragola, direttamente dallo pseudocalippo goccioloso, non ci ragiono più sopra.

Billur (Cristallo) mi dice: quando la situazione politica si calmerà. Abbassa la testa, e io spengo sotto la lingua tutte le domande che vorrei farle.

E poi è arrivata una famiglia: marito, moglie e suocera a seguito. Greco-americani. Stazza… sì, grande stazza, ma in larghezza. Ultrasessantenni tutti e tre. Stavolta non guardo direttamente, anzi cerco di restare in disparte. Sono imbarazzata per loro. Una mattina il papa (non papà) mi affronta sul gradino del giardino che immette sulla paralìa.

Were are you from? A bruciapelo.

From Italy, rispondo.

Lui si tranquillizza: nice!

Poi mi snocciola seduta stante, anzi lì in piedi, la sua vita. La voce è roca, il ritmo ansante, le maniglie dell’amore di un tempo sono masse grumose pencolanti.

Sta’ buona, mi dico, metti alla prova la tua tolleranza, la tua sventolata mancanza di pregiudizi. Anche gli obesi sono esseri umani. Lui intanto, in un inglese torvo e arrogante (elementare) mi confessa di venire da NewYork, di abitare in Atene ora. Fa il pollice verso.

No more America: five white, one black, five white/one black! Lo ripete più volte, quasi digrigna i denti. Poi conclude velocemente: I giudei (sic) spadroneggiano, controllano tutto, mangiano carne e noi…e si passa la mano sulla lingua come a dire che è rimasto a bocca asciutta. Parla solo lui, ovvio.

Emigrante.

Tornato in patria a godersi i frutti del suo lavoro.

Lo immagino arrivare a NewYork, giovane straccione di belle speranze. Ha i capelli neri, ricci. Non doveva essere male allora. Ora è una massa disgustosa di arroganza e protervia.

Emigrante.

Razzista.

Antisemita.

E con i capelli, annoto, di un corvino sospetto.

Ora mi spiego il perché della sua prima domanda. Mi ha fatto uno screening. Sono nice perché italiana. Chissà se gli avessi risposto Rabat, cosa mi avrebbe detto. Mi avrebbe scansata come un insetto fastidioso? Probabile. Decido di non rivolgergli più la parola. Lo tengo alla larga.

Ecco. E oggi arriva la notizia del terremoto in Italia. Ma da dove nasce l’umana albagia? Quel senso di onnipotenza di noi umani che uno scrollone della terra annienta in un istante?

La connessione tra il “cappello” letterario e il resto della storia: a voi.