mercoledì 24 agosto 2016

Tessera dell'insensatezza ovvero dei sassi in un bicchiere




È fondata l’opinione che i veri scrittori e le autentiche scrittrici non scrivano mai sotto l’impulso dell’emozione immediata. Le loro parole sono pesate come oro sul bilancino della significanza distaccata. È una fortuna per me, e un privilegio, che io non possa essere annoverata tra i “cesellatori di gigli”. Il mio “amico”, a sua insaputa, don Pablo Neruda “me lo imparò” una volta per tutte; allieva fui e scolara rimango.

Non scrivo perché altri libri mi imprigionino
né per accaniti apprendisti di giglio,
bensì per semplici abitanti che chiedono
acqua e luna, elementi dell'ordine immutabile,
scuole, pane e vino, chitarre e arnesi.” (da La grande gioia)


Prima ancora dei versi di don Pablo, fui del cerchio di chi vede nelle alate parole altrui la giustificazione delle proprie. E allora lui, il tal Alighieri, mi fa l’occhiolino e di dice di osare con i miei mezzi non certo nell’impresa di rifondare un mondo che mi sovrasta sempre di più, ma nel comunicare quello che il cuore mi detta.

“I’mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’è ditta dentro vo significando.” (D. Alighieri, Purgatorio, vv 52-54).

E nulla più di un terremoto mi smuove a considerazioni forse scontate, ma che urgono e premono per uscire.

Qui, nell’isola di Lesbo, le persone che incontro sono esotiche. Vedi la ragazza georgiana che ho visto scendere una mattina, bianca e alta come una statua in marmo di Paro, in spiaggia. Devo averla guardata a bocca aperta prima di accorgermi del suo sorriso splendente e della chioma bionda con riflessi di rame che si stava attorcigliando intorno alla testa come una corona. Mariam, è il suo nome, viene da Kutaisi. Veste parei fiorati che dovrebbero difendere la sua carnagione eburnea dal sole. Finiamo sedute sui ciottoli a bordo d’acqua e ridiamo: i mei piedi arrivano dove sono i suoi ginocchi! Devo scivolare in giù verso il mare per bagnarmeli, ma a questo punto devo girarmi indietro per parlarle. Non scherzo.

Mariam apre la sua sacca di stoffa e mi mostra le mille creme solari. Nulla da fare: dopo pochi minuti la dea marmorea si è trasformata in un’aragosta gigante. Tremo per lei che tutta solenne si tira qui e là il pareo velato per coprirsi un po’. Troppo alta, troppo lunga. Il pareo è la classica coperta che tira di qua, tira di là, serve davvero a poco. Io, piccola e sufficientemente scura, mi ritiro all’ombra della tamerice, Mariam si addormenta sulla spiaggia, regale come Paolina Borghese.

E poi Billur, una ragazza turca con marito Timur e figlia Turù (o Turùl). Anche questi biondi e gentili. Hanno un hotel a Istanbùl, dopo due minuti di conversazione anglo-franco-greco-italo-turca (nell’ordine) riceviamo un invito in piena regola: ci porteranno in giro per la città e ci faranno vedere tutto quello che c’è da vedere. A sera le mail reciprocamente scambiate fanno parte delle rispettive rubriche postali.

Non so quale seguito avranno questi scambi vacanzieri; in generi io li coltivo. Vuoi mettere andare a Tblisi/Kutaisi o Smirne con guide siffatte? Sì, c’è dell’interesse. Ma quando Turù mi stampa un bacio alla fragola, direttamente dallo pseudocalippo goccioloso, non ci ragiono più sopra.

Billur (Cristallo) mi dice: quando la situazione politica si calmerà. Abbassa la testa, e io spengo sotto la lingua tutte le domande che vorrei farle.

E poi è arrivata una famiglia: marito, moglie e suocera a seguito. Greco-americani. Stazza… sì, grande stazza, ma in larghezza. Ultrasessantenni tutti e tre. Stavolta non guardo direttamente, anzi cerco di restare in disparte. Sono imbarazzata per loro. Una mattina il papa (non papà) mi affronta sul gradino del giardino che immette sulla paralìa.

Were are you from? A bruciapelo.

From Italy, rispondo.

Lui si tranquillizza: nice!

Poi mi snocciola seduta stante, anzi lì in piedi, la sua vita. La voce è roca, il ritmo ansante, le maniglie dell’amore di un tempo sono masse grumose pencolanti.

Sta’ buona, mi dico, metti alla prova la tua tolleranza, la tua sventolata mancanza di pregiudizi. Anche gli obesi sono esseri umani. Lui intanto, in un inglese torvo e arrogante (elementare) mi confessa di venire da NewYork, di abitare in Atene ora. Fa il pollice verso.

No more America: five white, one black, five white/one black! Lo ripete più volte, quasi digrigna i denti. Poi conclude velocemente: I giudei (sic) spadroneggiano, controllano tutto, mangiano carne e noi…e si passa la mano sulla lingua come a dire che è rimasto a bocca asciutta. Parla solo lui, ovvio.

Emigrante.

Tornato in patria a godersi i frutti del suo lavoro.

Lo immagino arrivare a NewYork, giovane straccione di belle speranze. Ha i capelli neri, ricci. Non doveva essere male allora. Ora è una massa disgustosa di arroganza e protervia.

Emigrante.

Razzista.

Antisemita.

E con i capelli, annoto, di un corvino sospetto.

Ora mi spiego il perché della sua prima domanda. Mi ha fatto uno screening. Sono nice perché italiana. Chissà se gli avessi risposto Rabat, cosa mi avrebbe detto. Mi avrebbe scansata come un insetto fastidioso? Probabile. Decido di non rivolgergli più la parola. Lo tengo alla larga.

Ecco. E oggi arriva la notizia del terremoto in Italia. Ma da dove nasce l’umana albagia? Quel senso di onnipotenza di noi umani che uno scrollone della terra annienta in un istante?

La connessione tra il “cappello” letterario e il resto della storia: a voi.


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