venerdì 28 luglio 2017

Tamerice taumaturgica: fa bene anche all'acidità.


Stare sulla spiaggia, all'ombra della tamerice, i cui rami sotto il sole brillano come quelli degli di Natale. Il mare, regalando notturne e salse umidità, permette a questa umile pianta di offrire ombra fresca più di qualsiasi tecnologico ombrellone: la vaporizzazione delle impercettibili gocce luccicanti è puro ozioso godimento non mercificabile.

Il mio sentimento subisce una brusca virata sull’acido. L'indifferenza non mi appartiene. Chi osserva la realtà intorno con occhio critico si becca immediatamente il bollo di censore o peggio di moralista. Eccomi qua, sono io che guardo in cagnesco bagnanti teutonici che, fuori della loro rigida e sempre lodata civiltà, si dimostrano incapaci di scelta: gettano il tubo della doccia nella sabbia invece che riporla nell'apposito gancio. E chi se ne frega se poi un altro comincerà i suoi lavacri con una bella smerigliata di ruvida rena. Occupano tutti i lettini intorno al proprio ombrellone e chi s' è visto s'è visto. Sono anni che li osservo a Samo, a Limnos, e in altre isole. Si comportano esattamente come la genia italica tanto vituperata. Sembrano incapaci di autoregolarsi laddove le regole sono sdrucite, elastiche. Dove nessuno ti rimprovera e ti punisce. E poi hanno come tanti altri turisti bisogno del valletto. Fanno tintinare il loro euro forte per farsi servire in modo indegno. Si fanno portare l’espresso italiano in tazzina fino in acqua da Paraskos, al quale non sembra vero poter esibire giovialità a pagamento, ma forse borbotta un “μαλάκαςpur sorridendo a trentadue denti. Quel Paraskos che il primo giorno avrei voluto ammazzare, lui e il suo lido colonizzatore sotto la tamerice, e poi ho compatito. Deve lavorare.

 Le tazzine sul materassino oscillano, imbarcano acqua salata. I due ridono a crepapelle, le monumentali tette della signora, offerte generosamente al beneficio di acqua e sole, sussultano come colline per un sisma, lui la soccorre tenendola da dietro con le braccia, ma a fatica piccolo e mingherlino com’è. Producono spruzzi e marosi per stare a galla. Bevono lottando per l’equilibrio impossibile.

Mi sembra di aver sentito che caffè e sale producano un qualche disturbo gastrointestinale. Ma forse col marco, pardon col l'euro forte, si comanda anche alla peristalsi del secondo cervello di cui l’essere umano dispone.

Mi riprendo dalla mia irritazione: intorno a me si mescolano vari idiomi. Famiglie albanesi emigrate in Grecia e di lì in Italia e/o in Svezia. I bambini parlano italiano, svedese, albanese, greco e l’immarcescibile inglese.  Per questo la tamerice sorride nelle sue goccioline d’argento al mondo nuovo. Mi sussurra canzoni per privilegiati. Lasciali perdere i buzzurri, goditi la mia ombra e la nuova compagnia. Anche questa estate intreccerò corone di ringraziamento.

sabato 22 luglio 2017

Più che la Pizia poté il Sole









Scrivere di viaggi è di per sé un viaggio. Esercitare materialmente una possibilità di riflessione che il tran tran quotidiano riduce o sottrae del tutto, essendo quello un viaggio con tappe stabilite ab ovo. E non sto qui a elencarle per ovvie ragioni. Per questo le note del mio blog subiscono un incremento apicale proprio nel peregrinare estivo, quando per fortuna posso dedicarmi a due attività mie, esclusivamente autodeterminate rispetto agli imperativi di un’educazione così interiorizzata e cristallizzata nelle molte mie primavere da rendermi quasi sconosciuta a me stessa: l’esplorazione del mondo e l’esplorazione tanto più impervia dei miei pensieri attraverso le note del mio blog. Il viaggio non mi spalanca semplicemente nuovi panorami geografici o vagamente e pretestuosamente occasioni socioculturali, ma rimanda a sbirciate interiori nuove o semplicemente sottratte alla noncuranza colpevole.


Sarà per questo che non dimentico nessuno dei miei pochi e limitati viaggi, i cui resoconti si riversano in una sorta di scrittura steganografica di ciò che mi accade.  So che la steganografia è oggetto di insegnamento accademico come tecnica di comunicazione, ma la mia è solo un’approssimazione di immagine non un calcolo di algoritmi. Un antico proverbio italico forse sarà più efficace delle mie spiegazioni. “Scrivere a nuora perché suocera intenda”. Parlare in modo obliquo affinché solo l’interlocutore interessato ne colga il senso vero sotto la maschera. Una tecnica, mi dico, vecchia quanto il mondo, e mi assolvo.


Si parte per la Grecia anche questa estate dopo una serie di accadimenti pesanti, di quelli che metterebbero il fuoco sotto il culo a chiunque e ti dicono ‘scappa’ per suggerirti immediatamente di non farlo. Destinazione finale Samo e Lesbo, con pause intermedie necessarie. Delfi, per esempio. Interrogare l’oracolo, uno dei rimedi più ricorrenti quanto incontrollabili negli esiti. Mi attende l’Onfalos della Pizia, quella signora seduta nell’adylon (spero per lei a turno con altre pizie) tra esalazioni indefinibili: se dalla terra bitumosa, o dal braciere di segala cornuta, alloro e altre erbe. L’oracolo di Delfi, nella sua classica solennità, mi appare subito un posto fatto soprattutto per i signori di una volta, di quelli con molte risorse, a giudicare dagli edifici destinati a contenere e custodire i tesori che Ateniesi, Beoti, Cnidii e altra gente portavano qui sulle pendici del Parnaso per ingraziarsi l’oracolo e soprattutto per mantenere in piedi quel clero cialtrone di sacerdoti, che amministravano le offerte, e delle Pizie che profetavano a caso o a comando. Si sa che gli uomini sanno, mica le donne per quanto invasate o fumate.


Alle otto: si va alle otto del mattino, al massimo! Sarà fresco allora. Vana speranza, ché alle dieci siamo appena al teatro e già grondiamo come piante di pomodori innaffiati sotto il sole. Penso che i Greci che vi salivano non erano certamente vecchi come me e il filosofo. Qui ci vogliono resistenza e gambe giovani, attributi che ormai vacillano. Ci rifugiamo nel Museo e qui, tutto quello che ci appariva confuso dall’afa e dalla stanchezza ci è apparso nel suo splendore. Le sale offrono frescura e luce: un luogo divino dove si rimane abbacinati dalla bellezza, proprio quella che si fatica a intravedere in mezzo ai cumuli di pietre annerite dal tempo, sgretolate da terremoti e guerre. Penso che questo sia già un vaticinio della pitonessa: devi faticare per godere.  Direi scontato. Le cose belle te le devi sudare, devi combattere, attraversare il buio (e anche le lacrime o stille di sudore) per varcare la soglia divina della consapevolezza. In queste sale non devi sforzarti di immaginare quello che fu tra i ruderi sotto la canea, devi solo aprire gli occhi e saziarti, e dimenticarti delle ginocchia vacillanti, della gola riarsa, e persino del gattino miagolante che fa da portinaio impaurito al tempio di Febo Apollo. Ci si aggira, orde di visitatori permettendo, tra gigantomachie, divinità olimpiche e terrestri in lotta, natiche turgide dei Dioscuri, l’ombra di una Sfinge con una faccia beota che ammicca verso il povero Edipo, tripodi bronzei e figurine lillipuziane; pareti grondanti degli ori delle decorazioni e un enorme scheletro metallico di un toro che sembra gettare fuoco dalle narici e richiama per grandiosità del simbolo il Guernica di Picasso.


La sensazione di essere lì non per caso, come vaticinava la vecchia Pannychis XI, ormai stufa marcia delle cazzate che i sacerdoti continuavano a pretendere (racconto indimenticabile tragico e ironico di Friedrich Durrenmatt, La morte della Pizia) ma per cogliere quel segno steganografico  viene rivelata, e solo a me, da una teca contenente una coppa attica dall’interno dipinto: Apollo lo splendido che suona la lira e una piccola nera cornacchia che gli tiene compagnia. La stessa sopravvissuta nella mia Luna in gabbia? Sarebbe blasfemia, vero? Ma come mai mi sono trovata davanti a questa sacra cornacchia che svolazza nel tempo e nello spazio fino alle mie modeste pagine? Sono qui per ricevere l'assenso del Parnaso? Pannychis XI direbbe ai servi del tempio di prendermi a pedate e cacciarmi fuori dell’area sacra. Esco per pudore e mi siedo in terrazza: montagna e mare con un solo colpo d’occhio. Quale vaticinio migliore di questo panorama? Ridi di te stessa e non rompere.